D. - Scrivere la storia di un conflitto come quello mediorientale, nel quale Lei giustamente identifica tre attori principali, la parte araba, la parte israeliana e quella palestinese, è certamente un impegno non facile. Sappiamo, infatti, quanto l'interpretazione storica delle vicende culturali, religiose e nazionali che si intrecciano in modo sorprendente nella questione mediorientale sia stata influenzata da correnti di pensiero spesso mutevoli. D'altro canto, non può trascurarsi la difficoltà di gestire il rapporto con l'attualità, pervasiva e incombente, la cui lettura subisce il condizionamento di profonde divisioni e pregiudizi. Vuole descriverci la sua esperienza come storico rispetto a tali questioni?
R. - La domanda solleva una questione centrale non soltanto per la ricostruzione della storia e della storiografia del novecento, ma anche per i rapporti tra lo storico e l'urgenza politica dei fatti e degli avvenimenti. Proprio per questa ragione nella seconda edizione del mio libro ho aggiunto un capitolo riguardante l'uso pubblico della storia. Ritengo, infatti, che ci sia l'esigenza fondamentale di rivedere storiograficamente le categorie di interpretazione, la vulgata per così dire, attraverso le quali, tanto da parte israeliana che da parte palestinese, è stato ricostruito il conflitto. Va innanzitutto detto che l'uso pubblico della storia ha rappresentato, sia per la storiografia palestinese che per quella israeliana, una vera e propria clava. In realtà, più che di un uso pubblico della storia si tratta di uso politico della storia. Porto soltanto due esempi per semplificare la questione ed evidenziare come la ricostruzione storiografica abbia inciso sulla politica di entrambe le parti. Esiste un testo della Joan Peters, studiosa americana, uscito negli anni ottanta, che analizza il problema della nazionalità del popolo palestinese e pone la domanda radicale se tale popolo esista o meno. Su questa domanda si sono basate anche le politiche pubbliche all'interno dello Stato d'Israele. In particolare, Golda Meir riprese il tema fondamentale circa l'esistenza o meno di un popolo palestinese. La rilettura della storia del novecento, a partire dal 1917, anno della dichiarazione di Balfour, è stata portata avanti dalla politica e dalla storiografia israeliana sulla base di questa categoria: l'esistenza o meno del popolo palestinese, come arma di legittimazione ovvero di delegittimazione. Sull'altro versante, è sufficiente riferirsi ai testi - ormai sono diventati sacri, quasi una vulgata per la storiografia palestinese - di Edward W.Said, che tra le altre cose è un fine intellettuale palestinese che vive in America, attualmente docente alla Columbia University, il quale pone la questione contrapposta, o meglio, per così dire, rovesciante rispetto a quella della Peters. Egli si domanda se in realtà Israele non sia nato con un vizio di origine fondamentale, cioè con il vizio della violenza imposta attraverso l'espulsione dei profughi, assumendo la questione dei profughi come elemento di divisione fondante tra lo Stato d'Israele e la Palestina. La storia è quindi un terreno di confronto e di grandissimo scontro. Per comprendere la questione dal punto di vista storiografico basti ripensare proprio alla vicenda dei profughi, tutta giocata sui numeri, sulla quale le due scuole di pensiero si dividono. Mentre la storiografia palestinese insiste sui sei-settecentomila profughi espulsi nel 1948, in Israele, al di là del revisionismo storico di cui è interprete Morris nel suo ultimo testo, Vittime, la questione è affrontata con ben altro impegno documentale, dal momento che, ad esempio, non esiste, e nel mio libro lo cito espressamente, un vero e proprio censimento della popolazione palestinese nel 1948. Per il primo censimento bisognerà aspettare il 1993/1994, rilevamento tra l'altro riferito specificamente a Gerusalemme e non a tutto il territorio dell'Autorità Nazionale Palestinese e svoltosi durante le prime ed ultime elezioni da questa organizzate e gestite. Il fatto che manchino i documenti sui profughi e i censimenti ha creato una notevole querelle all'interno della storiografia. Riporto nei miei studi un rapporto dei servizi segreti israeliani del 1947/48 su un documento importantissimo, che anche Morris cita insieme alla storiografia filopalestinese, riguardante il cosiddetto piano di espulsione di Weitz che parla, invece, di 391.000 profughi. Le quantità sono diverse, insomma, ma su queste si gioca la ricostruzione dell'immaginario collettivo palestinese e israeliano. Propongo un ultimo esempio, che riguarda il ritorno dei profughi palestinesi, per sottolineare come l'urgenza politica si incroci con la difficoltà della ricostruzione storica. Sulla questione del ritorno dei profughi esiste la risoluzione n. 194 dell'ONU. Mentre Israele la interpreta facendo una distinzione, a mio avviso, puntuale, sia dal punto di vista giuridico che storico, tra esiliati, profughi e deportati, i palestinesi, al contrario, accettano soltanto l'idea di un ritorno tout court dei profughi del 1948, sostenendo il ricongiungimento familiare e anche dei discendenti. Questo significherebbe che quattro milioni di palestinesi potrebbero rientrare in Israele quasi violando il principio di autodeterminazione nazionale israeliano. Tale ulteriore esempio evidenzia come anche sui numeri della ricostruzione storiografica si giochi gran parte della polemica politica.
Il compito dello storico in questi casi risulta particolarmente difficile perché ci si trova di fronte ad una mancanza di innocenza che si riflette sulla ricerca documentale. Ho potuto osservare durante la mia ricerca come la stessa sistemazione dei documenti sia avvenuta in base a diverse e presupposte categorie. Ho già riferito relativamente alla questione dei profughi. Ma un altro esempio è illuminante, il modo in cui l'Inghilterra ha gestito il suo mandato dal 1922 al 1947. Anche in questo caso è stato difficilissimo ricostruire - al di là dei vari Libri Bianchi che si sono succeduti nel tempo, a cominciare da quello pubblicato da Churchill - le categorie di interpretazione circa il mandato inglese. Mancando l'innocenza fondamentale nella ricostruzione documentale, ho cercato di incrociare le due vulgate, le due codificazioni.
D. - Il Suo lavoro è articolato in sei principali capitoli cui segue un notevole contributo di documentazione. Il punto di partenza è l'origine della questione arabo-israeliana. Lei scrive, proprio in apertura, che non è esatto riferirsi a quella del 1948 come unica spartizione della Palestina e affermare che Israele sorse su gran parte di essa. Data l'importanza che il tema dello spazio e del territorio riveste in questo conflitto, definito in altra parte del libro come il più geografico dei conflitti, caratterizzato da un'inflazione di frontiere, vorrebbe spiegare ai nostri lettori il peso della questione territoriale nello sviluppo della vicenda mediorientale?
R. - La mia affermazione ha come punto di partenza la prima e originaria spartizione del territorio della Palestina, di cui dirò, che è la dichiarazione di Balfour. Il dato di fatto è che, rispetto a quella dichiarazione, al territorio allora considerato e ai diversi progetti, che poi magari citeremo, allora elaborati, il territorio poi accordato allo Stato d'Israele nel 1948 è più ristretto. Ma arriviamo al nodo della domanda, perché “il più geografico e geopolitico dei conflitti?”. è certamente vero che si è condotta per anni una guerra di mappe, come dice lo stesso Said, e come è anche emerso nei diversi colloqui di pace, da Oslo I in poi, proprio perché la questione mediorientale si gioca sulla mobilità delle frontiere. Questa è una terra stretta, è una terra promessa, anche troppo promessa, è un luogo geografico che i primi sionisti definivano come una terra senza un popolo abitata da un popolo senza terra. Allo stesso tempo è una terra mobile, perché è stata sottoposta a diverse ed artificiali spartizioni, ad iniziare appunto da quella del 1922.
Va ricordato che il 1917 è l'anno mirabilis per la questione arabo-israeliana-palestinese. Tra l'altro, vorrei fare un inciso sul mio metodo di approccio. Nel mio lavoro ho preso in considerazione il cd. “secolo lungo” (che per me non è il “secolo breve”) del novecento perché questo elimina un problema fondamentale, quello di evitare di leggere il problema arabo-israeliano-palestinese in termini metastorici o sovrastorici. Il novecento ci permette di leggere tutto secondo lo schema delle relazioni internazionali, valutare cioè la misurabilità geopolitica e geostrategica senza riferimento a nodi teologici, anche se non sono così ingenuo da pensare che il nodo terra-religione non sia uno dei fondamenti della questione arabo-israeliano-palestinese. Leggerlo però secondo quest'ottica farebbe venir meno il termine e, per così dire, la lunga durata geopolitica dello scontro. Nel 1917 il Ministro degli Esteri inglese, Lord Balfour, scrive a Lord Rothschild, che era il Vice Presidente onorario dell'organizzazione sionistica mondiale, una lettera brevissima di cinque, sei righe, ma decisiva, epocale, perché in quella lettera si fa riferimento ad un focolare nazionale ebraico in terra di Palestina, posto però ad una condizione, ossia che fossero garantiti i diritti, in particolare religiosi, delle popolazioni esistenti in Palestina. Nel 1922, alla Conferenza di Sanremo, che segue la Conferenza di Parigi, momento culminante per la ristrutturazione geopolitica della cartina mondiale, si stabilisce una distinzione. Si affida mandato all'Inghilterra e alla Francia, su un territorio che viene denominato Palestina, stabilendo che il terzo più meridionale della Palestina sia affidato all'Inghilterra, mentre la cd. Siria e il futuro Libano vengano ristrutturati secondo il mandato francese. L'Inghilterra ricorrerà nella gestione del territorio ad essa affidato ad un criterio geografico, ossia dividerà la Palestina ad est e ad ovest del Giordano. Facendo riferimento all'articolo sesto del mandato - ma anche alla dichiarazione di Lord Balfour, che venne recepita dalla Conferenza di Sanremo e divenne in questo modo rilevante come documento internazionale - venne creato ad est del Giordano, artificialmente, un emirato transgiordano a capo del quale venne posto Abdullah, mentre il territorio ad ovest venne affidato al futuro stato ebraico. Anche in questo caso, le dimensioni sono diverse rispetto a quelle stabilite nel 1948. Nel frattempo l'Inghilterra faticava molto a gestire i primi flussi migratori ebraici che provenivano dall'Europa in Palestina. Sui flussi migratori bisogna dire qualcosa perché, anche su questo punto, adotto un punto di osservazione diverso, rovesciante rispetto alla codificazione utilizzata dalla pubblicistica italiana nella ricostruzione della questione palestinese. Si parte dal presupposto che in terra di Palestina esistono i palestinesi e gli arabi mentre gli ebrei vi sono entrati togliendo, limitando, circoscrivendo o imponendo limiti alle popolazioni indigene preesistenti. Si tratta, a mio avviso,
di una falsità storica in quanto i flussi migratori vengono organizzati dettagliatamente e specificamente anche con la collaborazione araba. Il problema deriva dalla circostanza che non è l'Inghilterra a gestire questi flussi attraverso i vari Libri Bianchi, a cominciare dal già citato di Churchill per arrivare a quello di Mac Donald. Chi gestisce in realtà i flussi sono i grandi proprietari terrieri, i latifondisti arabo-palestinesi, i cd. “effendi”, che non fanno altro che guadagnare dall'alienazione delle terre concesse ai flussi migratori ebraici. Anche questo è un punto di osservazione diverso che ci dice molto sulla società palestinese, molto chiusa, gerarchizzata tra effendi e ayan, che sono i maggiorenti dei grandi clan tuttora esistenti, dagli Hussein ai Khalidi, grandi famiglie che troviamo ai primi del novecento e ancora oggi. Anche questo è un punto di vista rovesciante che ci aiuta a capire il problema della necessità e del ruolo degli inglesi e dei palestinesi nella spartizione del territorio, che viene affidato, nel 1924, agli insediamenti dei primi sionisti che, va detto, sono diversi per idee politiche ed estrazione sociale rispetto a quelli che troveremo nel 1933, quando Hitler salirà al potere.
è vero, quindi, che ci troviamo di fronte al più geografico dei conflitti e lo si comprende anche da queste continue divisioni del territorio attribuito all'insediamento ebraico originale. C'è un altro particolare da rilevare e che, a mio avviso, è decisivo per capire la fondatezza di questa affermazione. Nel 1939, nel documento in cui si regola la questione dei flussi migratori, si stabilisce addirittura un limite alla presenza ebraica, determinato in settanta-settantacinquemila ebrei in cinque anni. Si stabilisce, inoltre, che l'Inghilterra sovrintenda a questi flussi e alle alienazioni realizzate dagli effendi e dagli ayan. A ben vedere, quindi, nel 1939 si verifica un paradosso che pochi ricordano. Esistono in quel momento solo due paesi al mondo che non ricevono gli ebrei: la Germania e il mandato inglese sulla Palestina. Questo la dice lunga sul modo in cui l'Inghilterra ha gestito quel territorio. Arriviamo così all'inizio della seconda guerra mondiale. Mentre l'insediamento ebraico si schiera apertamente e concretamente con gli Alleati, partecipando con un contingente anche all'Ottava Armata, i paesi arabi, o meglio, il Gran Muftì di Gerusalemme Hussein si schiera con i nazisti, scelta molto grave dal punto di vista storico più che geopolitico. L'antisemitismo, che poi è diventato antisionismo, nasce proprio da questa posizione. Tale elemento è, tra l'altro, ancora poco studiato anche perché noi storici ancora non possiamo accedere agli archivi dei paesi arabi. Abbiamo solo fonti “di seconda mano”, come lo stesso Morris ha avuto modo di rilevare. Certo è che i palestinesi e il loro principale rappresentante, il Gran Muftì appunto, si schierano dalla parte dei nazisti e questo è un vulnus fondamentale, anche per l'immaginario collettivo di noi europei, e soprattutto per le potenze europee nella ricostruzione del 1945. Arriviamo così al problema del 1947, quando l'Inghilterra è impossibilitata a gestire i rapporti e si verifica un intervento internazionale fondamentale. Viene cioè costituita una commissione chiamata “UNSCOP” (United Nations Special Committee for Palestine) per dirimere la questione arabo-palestinese-israeliana ed elaborare un progetto di spartizione di quel territorio basato sui modelli precedenti al fine di addivenire ad una divisione del territorio della Palestina, già affidato al mandato inglese, in due Stati: quello israeliano e quello palestinese. La Commissione decide e nel 1947 viene emanata dall'ONU la prima, e fondamentale, fra tutte le risoluzioni: la numero 181. Con questa si stabilisce la divisione del territorio della Palestina con la legittimazione internazionale dell'Onu: Stato ebraico da una parte e Stato palestinese dall'altra. L'Agenzia ebraica, che rappresentava gli insediamenti ebraici, accetta tout court quella spartizione, che prevede l'insediamento su un territorio più circoscritto rispetto a quello stabilito nel 1917, mentre gli Stati arabi la rifiutano. Il problema palestinese nasce proprio in questo momento, è l'effetto, dunque, e non la causa, di questo “gran rifiuto”.
D. - Alla questione del territorio, si collega anche la vicenda dei coloni e più in generale alcune posizioni del movimento sionista.
R. - Certamente anche la questione dei coloni si ricollega al problema dei territori. Da un punto di vista strategico acquista la sua importanza a partire dal 1970, all'interno delle stesse frontiere del 1948. Facciamo cioè riferimento a quei coloni che si trovano in Cisgiordania, che non chiamo Giudea e Samaria secondo il linguaggio di un certo sionismo, che non è quello che ha fondato lo Stato d'Israele. Bisogna distinguere, all'interno del movimento sionista, tra il sionismo socialista, laburista, laico di Ben Gurion e degli stessi Rabin e Peres e il sionismo della destra revisionista di Jabotinski che si muove secondo categorie religiose e attribuisce molta importanza al nodo terra-religione ed è, in qualche modo, possiamo dire, più “fondamentalista”. è laico nella visione politica ma rilancia i temi cari all'ebraismo religioso, cioè sostiene che la terra di Israele deve appartenere allo Stato di Israele, in particolare la Giudea e la Samaria, cioè la Cisgiordania, in cui vivono appunto la maggior parte dei coloni. Secondo questa visione, quindi, questi territori spettano allo Stato di Israele originariamente. Questa tesi è sostenuta dall'attuale destra del Likud e, in particolare, dal Gush Emunim che è il braccio politico e secolare dei coloni. Anche la caratterizzazione dei coloni è cambiata dagli anni settanta ad oggi rispetto ai primi grandi insediamenti realizzati, tra l'altro, dal laburismo socialista e non dalla destra israeliana. In realtà, in questa fase ha acquistato molta importanza il nodo terra-religione tant'è vero che i coloni rappresentano strategicamente il cd. “giubbotto antiproiettile” di Israele in quanto si trovano sulla linea del Giordano e in Golan, altro punto strategico fondamentale per Israele dal punto di vista dei rapporti con il Libano e con la Siria, anche per la gestione dell'acqua. è cambiata, quindi, la caratterizzazione di questi coloni e non è un caso che la difficoltà per Israele di procedere al ridispiegamento degli stessi dalla Cisgiordania nasce proprio dall'argomento fondamentale che quel territorio appartiene storicamente ad Israele, non solo perché gli è stato affidato nel 1948, ma anche perché è stato conquistato nel 1967, anno che, come vedremo, rappresenta uno spartiacque per il fondamentalismo sia arabo che israeliano.
D. - Nell'esaminare le quattro guerre arabo-israeliane, l'ultima quella del Kippur del 1973, Lei riferisce che la guerra dei Sei Giorni del 1967 mise in moto il fondamentalismo islamico. è interessante questa considerazione dal momento che molti osservatori ritengono che l'islamizzazione della questione palestinese, insieme alla crescita di movimenti radicali quali Hezbollah e Hamas, sia piuttosto la conseguenza di errori politici, dell'una e dell'altra parte, nell'ultimo decennio. Islamizzazione che rischia di portare allo scontro, senza soluzione di continuità, non solo due nazionalismi ma anche due fondamentalismi. Cosa emerge nel suo studio in relazione a questo processo?
R. - Anche in questo caso siamo in presenza di una strumentalizzazione della questione palestinese, di un uso pubblico della storia da parte dei terroristi e, per esempio, di Bin Laden. La questione palestinese non nasce con un rapporto stretto fra fondamentalismo islamico e rivendicazione nazionale, ma recupera alcune categorie religiose. Su questo però c'è una discussione in corso. Andiamo ad analizzare i documenti e, in particolare, l'atto istitutivo dell'OLP. Questa nasce solo nel 1964 e ciò ripropone tra l'altro il problema della mancanza, tra il 1917 e il 1964, di un movimento nazionale palestinese. La nascita dell'OLP andrebbe inquadrata nell'ambito della guerra fredda piuttosto che leggerla come vero e proprio movimento autonomo creato da Arafat nel grande arcipelago palestinese. Tornando all'atto costitutivo, il primo articolo pone il problema dell'esistenza o meno del collegamento tra rivendicazione nazionale palestinese e il punto di vista religioso, se non fondamentalista. Il documento sembra rispondere affermativamente, e non è un caso che uno degli accordi raggiunti nell'ambito di Oslo I e Oslo II riguardava proprio l'eliminazione dall'atto istitutivo dell'OLP dell'obiettivo della cancellazione dello Stato di Israele dalla carta del mondo. Il suddetto primo articolo stabiliva proprio che: “La Palestina è la patria del popolo arabo-palestinese. Essa è parte indivisibile della patria araba” - il riferimento è quindi alla umma araba, alla totalità del mondo arabo, alla fratellanza araba, concetto sovrastorico, teologico e religioso - e il popolo palestinese è parte integrante della nazione araba”. Questa è una dichiarazione che riprende proprio il linguaggio religioso dell'islamismo. Si parla di “nazione araba” tout court, cioè di umma araba e il popolo palestinese costituisce un pezzo di quella nazione. Tuttavia bisogna considerare anche la storia concreta dell'OLP e poi Arafat è un uomo pieno di realpolitik, anche troppa, visto che ha anteposto sempre, e questo è un dato di fatto e non un giudizio di valore, l'indipendenza prima e la costituzione dello Stato palestinese poi, come fondamento della propria azione politica. Quindi ha dato la precedenza alla costituzione dello Stato palestinese e non alla costituzione della nazione araba. Non dimentichiamo infatti che dentro l'OLP è stata sempre maggioritaria la linea tendenzialmente marxista dei Fronti nazionali di liberazione dei vari Abu Abbas o Hawatmeh o di Khaddumi e Jibril che hanno sfruttato il filone terzomondista e quindi le rivendicazioni rivoluzionarie piuttosto che quelle statuali. Anche su questo c'è un'ambiguità di fondo di Arafat, tuttora esistente, perché ancora non ha sciolto il nodo fondamentale tra la via rivoluzionaria e quella negoziale statuale. Per rispondere quindi alla domanda e ritornando ai documenti, l'articolo primo di cui parlavo ci fa capire che la questione palestinese non è leggibile senza il contenitore più largo della questione nazionale araba.
Per quanto riguarda la Guerra dei Sei giorni, questa sicuramente ha rappresentato un motore per il fondamentalismo islamico. Con la precedente sconfitta nasseriana del 1956, infatti, e con la sconfitta terribile del 1967 - con la quale Israele ha riconquistato Gerusalemme est, che era della Giordania, e i territori della Cisgiordania, del Golan e del Sinai e della Striscia di Gaza - il nasserismo e la mediazione tra terzomondismo, socialismo, via rivoluzionaria e nazionalismo palestinese crollano e con queste crolla anche il progetto politico sia delle monarchie che delle repubbliche arabe. L'aspetto religioso, quindi, diventa ideologicamente l'unica alternativa. Il fallimento del progetto politico nasseriano e la guerra fredda ricompongono il mosaico dei progetti politici. Il fondamentalismo diventa l'unico elemento di omogeneizzazione, tanto per i palestinesi che per gli arabi, e costituisce l'unico elemento di identità forte rispetto ai diversi nazionalismi. Il 1967 è quindi l'anno in cui il fondamentalismo assume un ruolo importante e così sarà anche negli anni a seguire, a partire dall'assassinio di Sadat negli anni settanta. Ma anche la situazione internazionale inizia a modificarsi, in particolare, tra il 1953 e il 1956. Fino a questa data l'Unione Sovietica aveva dato il proprio sostegno ad Israele. Ricordiamo che l'Unione Sovietica, insieme agli Stati Uniti, fu uno dei paesi che approvò la famosa risoluzione dell'ONU n. 181. Analogo appoggio provenne da tutta la sinistra italiana, in particolare dal Partito Comunista guidato dall'allora segretario Palmiro Togliatti, che sostenne la nascita di Israele, visto anche come il primo paese cooperativistico, comunitario che si strutturava nei kibbutz. Lo stesso si può dire per la Cecoslovacchia che sostenne concretamente, militarmente, strategicamente e logisticamente Israele nella prima guerra arabo-israeliana. Ebbene, a partire dal 1953 l'Unione Sovietica si schiera apertamente a favore di Nasser, dell'Egitto e del terzomondismo in contrapposizione agli Stati Uniti.
D. - Se bene comprendiamo la sua interpretazione, con la guerra dei Sei Giorni si crea una base comune che in qualche modo sostituisce l'ideologia religiosa al fallimento dell'ideologia politica. è dunque ipotizzabile che la successiva maggiore presa del fondamentalismo si ricolleghi in modo diretto ad altri eventi, quali ad esempio la rivoluzione di Khomeini in Iran, che rafforza gruppi come Hezbollah e Hamas. Questa posizione più radicale, che nasce successivamente e si muove in relazione alle esigenze politiche dei diversi paesi arabi, sembra quindi l'unico terreno di coesione che sopravvive alla crisi politica.
R. - Esattamente così. Porto alcuni esempi per spiegare ancora meglio questa tesi. Il canone religioso costituisce l'unico elemento di identità ed omogeneità non solo per le grandi masse diseredate ma anche perché mette insieme opzioni politiche diverse, il bathismo di Saddam o quello siriano di Assad con la monarchia hascemita. Altro elemento importante: l'aspetto religioso rimane l'unico punto di coesione arabo-palestinese anche a causa dell'ambiguità di alcuni paesi arabi nei confronti della questione palestinese e in particolare dei profughi palestinesi. Mi riferisco, in particolare, al problema giordano, al quale si ricollega Settembre nero, la spedizione in Libano o meglio la cd. Pace in Galilea di cui Sharon sarà l'interprete principale, e così via. In Giordania troviamo un elemento di ambiguità di fondo. Bisogna, infatti, ricordare che soltanto nel 1986 la Giordania dichiara ufficialmente l'abbandono totale del progetto della costituzione di uno Stato giordano-palestinese. Già nella divisione del 1948 si era evidenziato lo scetticismo giordano nel partecipare alla prima guerra arabo-israeliana visto che i territori in possesso della Giordania erano quelli del futuro Stato palestinese. Non va dimenticato, prima del 1986, il verificarsi degli avvenimenti del settembre nero, quando re Hussein di Giordania, dette l'ordine di uccidere, secondo fonti ONU, circa seimila palestinesi che colà risiedevano, evento dal quale derivò l'organizzazione terroristica denominata appunto “Settembre nero” che portò al tragico attentato alle Olimpiadi di Monaco e, tra gli altri, anche a quello di Fiumicino nel 1972. Questi sono dati importantissimi per ricordare e comprendere le ambiguità delle diverse posizioni in gioco. Infine vorrei fare una precisazione storica. Hezbollah e Hamas nascono dopo gli anni '70, ma precedentemente esistevano i Fratelli Musulmani che rappresentano la base e il riferimento ideologico di queste organizzazioni successive. Tanto è vero che saranno proprio i Fratelli Musulmani ad organizzare l'assassinio di Sadat, il quale fu il grandissimo leader e statista arabo che avviò le relazioni con Israele e per primo firmò la pace con lo Stato ebraico a Camp David riottenendo il Sinai. A questo proposito vorrei fare un'ultima annotazione. Si parla tanto della difficoltà della destra israeliana ad accettare lo Stato palestinese, ma ricordo che gli accordi di Camp David furono firmati da Begin, cioè dal Likud, e ricordo che Wye Plantation del 1998 fu firmata da Netanyahu, quindi sempre dalla destra.
D. - Nel Suo lavoro, fa risalire ai primi anni settanta l'orientarsi della politica dei gruppi palestinesi, anche interni all'OLP, verso il terrorismo. Quali convinzioni ha tratto, dall'analisi storica e documentale, della simbiosi questione palestinese e terrorismo? In particolare, come può influire l'undici settembre sulla situazione palestinese?
R. - Iniziamo analizzando storicamente il rapporto tra terrorismo palestinese e metodo terroristico. Sappiamo che negli anni settanta l'arcipelago palestinese è frammentato. Arafat già da allora ha difficoltà ad imporre una superiore unità politica alle diverse aspirazioni palestinesi. Ma esiste un altro dato di fatto storico: l'ispirazione rivoluzionaria marxista presente all'interno della cultura degli anni settanta - terzomondista, rivoluzionaria - che ricorre alla lotta armata. Non dimentichiamo poi tutti i rapporti internazionali, a cominciare da Cuba e dall'Unione Sovietica, e a tutte le alleanze che vengono concluse da Bandung in poi tra i paesi non allineati e il blocco sovietico. Questo è un elemento da considerare. Altro punto è la questione nazionale palestinese, abbandonata per lo più dai paesi arabi, e riproposta da Arafat in termini internazionali proprio attraverso il terrorismo, la lotta armata. E il nostro paese, come crocevia del terrorismo, ne sa qualcosa. Si consideri poi la mancata mediazione dell'Europa tra israeliani e palestinesi in un momento in cui il progetto di creazione di un Europa politica unita stava crescendo, e siamo tra gli anni settanta e ottanta. Anche l'Europa non viene fuori da quell'ambiguità di fondo cui facevamo riferimento precedentemente, perché sostiene la causa nazionale palestinese ma introduce alcuni elementi che peseranno sull'immaginario collettivo, riguardanti il rapporto tra terrorismo e nazionalità, quasi che quest'ultima possa essere considerata una giustificazione al terrorismo internazionale. Ciò conferma un atteggiamento generale di più lunga durata: si è verificato da parte dell'Europa e, soprattutto, della sinistra europea una sorta di slittamento dall'originario sostegno alla causa israeliana a quello della causa palestinese. La ragione è che Israele viene visto dall'Europa come l'attore politico che occupa terre legittime del popolo palestinese, tanto è vero che la Comunità Europea si rifà continuamente alle varie dichiarazioni ONU, ma mai alla prima risoluzione ONU, la n. 181, di cui abbiamo parlato all'inizio, che costituisce la “madre” di tutte le risoluzioni sotto il profilo geopolitico e che rivela appunto la responsabilità dei paesi arabi rispetto alla mancata costituzione della Stato palestinese. In questo modo si sostiene l'idea fondamentale alla base del terrorismo palestinese e dei palestinesi moderati, quella che in realtà esista un blocco antipalestinese (costituito da ONU, USA, Israele, Paesi occidentali) che non vuole applicare le risoluzioni legittimamente votate dall'ONU, tra le quali anche la citata 181. Altro elemento storico per capire la frattura del 1967 è che in quell'anno l'URSS è impegnata nella primavera di Praga, come negli anni cinquanta era impegnata in Ungheria, e quindi non vede la questione palestinese come il nodo fondamentale del Medio Oriente. Questo elemento è un ulteriore fattore che ha favorito la nascita del terrorismo internazionale palestinese. Su questo ha avuto un buon gioco comunicativo proprio Arafat che è stato l'uomo capace di recarsi all'ONU con il ramoscello d'ulivo e il mitra. Arafat ha buon gioco nel dimostrare di essere vittima della situazione internazionale piuttosto che causa o concausa del terrorismo internazionale.
E veniamo al nesso con l'undici settembre. L'idea che abbiamo ricavato da questo tipo di terrorismo è molto diversa da quella che avevamo del terrorismo palestinese. Quest'ultimo è giocato totalmente sul fattore nazione quindi sulla via rivoluzionaria e statuale. Il terrorismo dell'undici settembre presenta gli elementi fondamentali degli anni settanta, quali, ad esempio, l'antimperialismo americano o l'opposizione alla mondializzazione, ma ha rotto le frontiere dei diversi terrorismi nazionali. Questo è l'elemento fondante su cui noi occidentali dobbiamo riflettere. Questo terrorismo è arrivato fin nel territorio americano, spezzando i diversi terrorismi legati a considerazioni locali o nazionali. Troviamo Bin Laden, che è un wahabita saudita, che si reca in Afganistan; sappiamo della sua presenza, dalla metà degli anni novanta, in Sudan, altro grande luogo di carneficine dimenticate. Sono presenti elementi della centrale islamica internazionale un po' dovunque: nelle Filippine con Mindanao o in Cecenia, in Indonesia o a Timor, idem in Birmania. L'undici settembre ha fatto prendere coscienza agli occidentali di questo fatto: il verificarsi dell'internazionalizzazione islamica. In quest'ambito, poi, si è ribaltato il rapporto tra islamismo e modernità, che è l'elemento culturale di fondo che si pone alla riflessione dell'Occidente. Credo che sia avvenuta una islamizzazione della modernità. E Bin Laden l'ha dimostrato, sia rispetto al metodo e alla logistica che usa, sia nel profondo rapporto che c'è tra islamismo e cultura moderna. Elemento che mancava totalmente al terrorismo degli anni settanta. Il terrorismo attuale ha una vasta penetrazione e va al di là del localismo e della territorializzazione perché pone il nodo di fondo dei rapporti tra modernità e Islam, a partire da categorie proprie e non importate dall'Occidente. Io non accetto però su questo la teorizzazione dello scontro di civiltà. A mio avviso, l'islamismo radicale ha cambiato metodo di approccio strategico e pone all'Occidente il problema di una sua nuova collocazione, di un rapporto diverso nei confronti del Terzo e del Quarto mondo. Ossia, l'islamismo fondamentalista, oggi più mobilitante e propagandistico, pone una domanda radicale che noi geopoliticamente dobbiamo risolvere.
D. - Potremmo quindi sostenere che dal punto di vista del radicalismo islamico globalizzato la questione palestinese può essere utilizzata, strumentalizzata come una delle testimonianze di questo scontro e dal punto di vista palestinese il rischio è che Hamas e le altre organizzazioni possano vedere in Bin Laden o Al Qaeda o organizzazioni di quel genere un riferimento. Possiamo dire che le possibili connessioni siano queste?
R. - Sicuramente è così. Queste sono le connessioni fattivamente e storicamente già operanti. Ad esempio, lo sceicco Yassin che si trova nella striscia di Gaza e rappresenta l'anima spirituale di Hamas o, comunque, dell'islamismo radicale, ha rapporti profondissimi con Al Qaeda e Bin Laden. Di nuovo la questione palestinese viene usata come una clava, strumentalmente.
D. - Abbiamo un intreccio di globale e locale.
R. - Esattamente. Vorrei fare, poi, una piccola considerazione sull'Europa e sul rapporto tra il suo ruolo e il terrorismo internazionale perché dice molto su quel rapporto. L'anno scorso a dicembre, l'Unione Europea, nell'ambito dei provvedimenti varati a seguito dell'undici settembre per contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale, non ha inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali Hezbollah, anche per la grande pressione esercitata dalla Francia, e questo rappresenta un vulnus. Anche il problema, postosi di recente, dei tredici terroristi palestinesi asserragliati nella basilica della Natività non ha visto l'Europa assumere una posizione comune. Alla Conferenza di Durban, inoltre, c'è stata la riproposizione da parte di alcuni paesi arabi dell'identificazione tra sionismo e razzismo. Su questo l'Europa ha taciuto. Se passa di nuovo l'idea culturale, di psicologia collettiva prima, che sionismo è uguale a razzismo, vuol dire che stiamo tornando indietro agli anni settanta, e alla risoluzione ONU del 1975 che parificava il sionismo al razzismo. Gli sforzi straordinari di Solana e Moratinos sono stati efficaci ma mancano del necessario orizzonte geopolitico nel quale collocare le diverse misure da adottare e le diverse sequenze. L'Europa, sicuramente, ha dimostrato in questa fase di aver superato l'atteggiamento notarile che ha sempre avuto nei confronti della questione arabo-palestinese e si pone ora in termini di mediazione politica e questo va riconosciuto come un grande passo avanti. Ha un progetto di pace, discute e se pensiamo che nel 1991 alla conferenza di Madrid l'Europa era presente solo in veste di ascoltatore, qualcosa è cambiato. Ma l'Europa deve uscire da una certa titubanza culturale, deve sciogliere il nodo nei confronti di Israele e abbandonare l' ambiguità nei suoi confronti pur sostenendo prioritariamente le ragioni della parte palestinese, altrimenti è difficile ricostruire dopo l'undici settembre una vera unità culturale anche occidentale. Altra cosa vorrei dire a proposito dell'undici settembre. Negli anni settanta si parlava degli arabi e dei palestinesi come di vittime della situazione senza tenere conto del fatto che proprio i paesi arabi erano comunque detentori della fonte primaria della ricchezza: il petrolio. Ora si fa un'altra errata comparazione tra la tecnologizzazione dell'Occidente avanzato e un Islam o un mondo arabo islamico arretrato, e non è proprio così. Bin Laden, anzi, dimostra esattamente il contrario con l'uso che fa non solo dei mass media ma della scienza e della tecnica occidentale. E questo è un punto che differenzia molto il terrorismo di oggi da quello degli anni settanta.
D. - Un'ultima riflessione riguarda la città di Gerusalemme. Ogni tentativo di trattativa ha trovato nella sistemazione della città sacra per le tre religioni monoteiste un punto critico di difficile soluzione. Cosa emerge, nel Suo approfondimento, anche in relazione alle prospettive di una soluzione per Gerusalemme?
R. - Gerusalemme è una città tre volte santa e questo richiama subito il nodo tra geopolitica e aspetto territoriale e sacrale. Camp David si è bloccato sia rispetto alla questione dei profughi che di Gerusalemme. Arafat non ha accettato la proposta israeliana, in realtà americana secondo Arafat, il cd. “Piano Clinton”, della divisione e della sovranità congiunta e tutela dei luoghi santi islamici-arabi da parte dei palestinesi. Sulla questione di Gerusalemme a Camp David Arafat ha dimostrato tutta la sua subalternità nei confronti dei paesi arabi, anteponendo l'interpretazione e la categoria teologica e sovrastorica di Gerusalemme rispetto alla categoria della realpolitik statuale, nazionale che Arafat aveva portato avanti dagli anni sessanta in poi. Questo, a mio avviso, è stato un grande errore. Arafat ha cioè posto al mondo un problema. Non solo la sua subalternità rispetto ai paesi arabi, ma anche il fatto che all'interno del mondo palestinese (Hamas e Jihad insegnano), la questione di Gerusalemme non è solo un problema palestinese ma è anche il problema della umma araba. Insomma, Arafat non ha voluto essere il primo leader arabo a contrattare la città di Gerusalemme che per gli arabi rimane a totale sovranità arabo-islamica. Questo è il nodo territoriale: ci sono delle “linee rosse” che arabi, israeliani e palestinesi hanno messo nella zona di Gerusalemme. In questo senso si va riprendendo da più parti il progetto che fu di Paolo VI ma che è anche di Giovanni Paolo II, il quale in una lettera apostolica del 1984 parlò di uno statuto internazionalmente garantito per Gerusalemme est, quindi per la città vecchia, quella entro le mura e che porta il peso millenaristico della città. In questo modo sottintendeva di tralasciare la questione di una sovranità palestinese o israeliana per Gerusalemme ovest, la parte fuori le mura. Sarebbe quindi possibile pensare, su questa base, ad una internazionalizzazione non dell'intera città ma solo di quella vecchia, che potrebbe essere divisa in linee rosse arabo-palestinesi da una parte e israeliane dall'altra. Questo sarebbe possibile, e lo ha dimostrato Barak a Camp David. Un po' meno possibile lo sarà per il governo di Sharon o di Netanyahu. Gerusalemme pone anche un altro grandissimo problema: quello degli insediamenti israeliani all'interno della città. I palestinesi accusano i governi israeliani che si sono succeduti dal 1993 in poi di aver riproposto l'antico progetto della Grande Gerusalemme di Shamir realizzando una serie di insediamenti all'interno della città. Prima di addivenire ad un accordo quadro sarà necessario risolvere il problema di questi insediamenti. Altra questione di difficile soluzione sta nel rapporto tra i paesi arabi e la Palestina. Nell'accordo poi fallito di Camp David si parlava di una sovranità limitata nei luoghi islamici da parte dei palestinesi insieme ad una Commissione islamica congiunta presieduta dal Marocco, come a dire che i palestinesi possono esercitare una sovranità, ma limitata non solo dagli israeliani bensì anche da parte dei paesi arabi. Ecco l'altro nodo legato alla fratellanza tra paesi arabi e comunità palestinese.
Per quanto riguarda il futuro, l'unica cosa certa su Gerusalemme, e sul problema palestinese-israeliano più in generale, è che una riconciliazione totale è difficile. Non è possibile, cioè, addivenire ad un accordo quadro che risolva tutti i problemi, a cominciare proprio da Gerusalemme. Vanno scorporate le varie questioni. Tra le altre cose, un progetto di peace building deve passare attraverso alcune sequenze che è necessario vengano interiorizzate dalle due parti contendenti. La questione di Gerusalemme, tanto per farmi capire meglio, è diversa dal problema delle risorse idriche e del Golan. Non sarebbe possibile riunire in una conferenza generale su Israele e la Palestina i due attori principali tralasciando, ad esempio, la Siria, perché il Golan non è né israeliano né palestinese, ma della Siria che attualmente non è più il paese di Assad ma del figlio, Bashir Assad. Scorporare i diversi problemi già sarebbe un grandissimo passo verso la pace: separare la questione di Gerusalemme da quella dell'acqua o del Golan o dei coloni in Cisgiordania è segno di realismo. Bisogna fare poi un ulteriore passo prima di una conferenza di pace. Bisogna cioè arrivare ad una riconciliazione storica. Le parti in gioco dovrebbero fare qualcosa di simile a quello che è accaduto in Sudafrica dove fu costituita una "Commissione di riconciliazione per la verità storica" che è stata poi il fondamento della ristrutturazione e della redistribuzione del territorio tra le varie comunità etniche.
E ritorniamo così alla domanda iniziale, all'uso pubblico della storia e alla necessità di procedere alla riconciliazione affermando il principio del reciproco riconoscimento. Bisogna affermare il principio del riconoscimento delle responsabilità prima ancora di misurarsi sulle questioni e questo significherebbe anche superare certe ingessature e rigidità delle risoluzioni ONU, come, ad esempio, la numero 194 sul diritto del ritorno per i profughi, ai quali Israele riconosce le sofferenze morali ma non storiche e quindi ne ammette il ricongiungimento familiare ma non il ricongiungimento tout court. Se prima di tutto non c'è il riconoscimento reciproco degli attori in antagonismo è difficile arrivare ad una mediazione concreta, diplomatica sulle diverse questioni.
Ciò ci conduce così al problema del Medio Oriente allargato. Sfuggono, a mio avviso, alle relazioni internazionali, e alla pubblicistica che ad esse guarda, alcuni elementi sviluppatisi negli ultimi anni novanta, proprio durante gli accordi di Oslo, e la novità fondante che Israele aveva introdotto rispetto alle relazioni internazionali. Israele nel corso degli accordi di pace di Oslo ricostruiva, proprio per la certezza che attribuiva alla pace di Oslo, nuovi rapporti allargati nel Medio Oriente, cercando di superare il proprio ruolo e il proprio “complesso di Masada”, cioè dell'accerchiamento - complesso psicologico e collettivo di Israele dell'accerchiamento, non solo territoriale, ma anche demografico rispetto ai paesi arabi (e qui ritorna la tematica geopolitica pensando al proprio ruolo in funzione non solo dello stato palestinese, ma anche degli altri stati arabi). Israele, ricordo, ha concluso alcuni accordi di pace separata: uno con la Giordania, paese arabo moderato, sul problema specifico delle acque e dell'overpumping, e non è di poco conto; un altro accordo strategico, che riguarda il controspionaggio, l'intelligence e i rapporti geopolitici in generale con la Turchia. Non dimentichiamo che l'accordo turco-israeliano è stato fondamentale per il controllo delle acque in Medio Oriente; altro accordo importantissimo è stato quello con le repubbliche, ora islamiche, dell'Asia centrale, Azerbaigian in particolare, e Uzbekistan, altro grande rapporto legato all'intelligence e alla manutenzione e organizzazione dei pipeline.
D. - Lei sostiene, insomma, che Israele stava cercando di assumere il ruolo di una sorta di potenza locale?
R. - Esattamente. Una vera e propria potenza locale, concependo questo ruolo accanto allo stato palestinese. Quest'ultimo rappresentava l'equilibrio per realizzare queste aperture. Questa è stata la strategia dello stato israeliano negli anni 1994/1998. Ricordo poi l'accordo, bloccato da parte degli Stati Uniti, con la Cina sugli armamenti riguardanti l'aviazione. Questi sono rapporti propri di una potenza che pensa se stessa non più ripiegata dentro il territorio regionale ma che si fa asse di equilibrio geopolitico internazionale.
D. - E questo, a suo avviso, agevola o complica la risoluzione della questione palestinese? Questo ripensamento strategico di Israele favorisce la volontà di risolvere il conflitto o ne agevola il mantenimento?
R. - Io credo che la favorisca, ma questa non è la stessa percezione che ha l'Autorità nazionale palestinese. Infatti, nel mio libro riporto una citazione di un'affermazione di Faisal Hussein che accusava Israele di cercare paci separate, appunto con la Giordania, con l'Egitto, con il Libano (per la fascia di sicurezza). I palestinesi hanno quindi la percezione che Israele voglia isolarli e delocalizzare l'Autorità nazionale palestinese. Ma Israele sa bene che isolare e circoscrivere strategicamente l'Autorità nazionale palestinese significa aggiungere una variabile conflittuale ai rapporti con i paesi arabi, se non islamici. Questo, secondo me, è un punto dirimente la questione arabo-israeliana-palestinese. Avevamo ed abbiamo due piani: uno in cui Israele cominciava a configurarsi come potenza non solo regionale ma internazionale, pur con la difficoltà della creazione di uno stato palestinese; ma c'era anche la percezione da parte di Israele, e questo è il secondo piano, che il problema palestinese doveva entrare in un contesto più ampio, non solo regionale. Questo punto era ben chiaro ad Israele sia nel corso del primo che del secondo accordo di Oslo, tanto è vero che nello Stato ebraico era nato un grandissimo dibattito circa il fatto che Israele avesse o meno un ruolo nell'ambito dell'Unione Europea, anche se non necessariamente come membro effettivo. Questo vuol dire ragionare su un piano completamente differente rispetto agli anni settanta-ottanta, e anche novanta, perché far entrare Israele in Europa significa farvi entrare automaticamente, come effetto a cascata, anche l'Autorità nazionale palestinese e questo creerebbe una serie di conseguenze importanti sulle relazioni internazionali.
D. - Un'ultima domanda: chi è che può avere interesse ad ostacolare questo progetto strategico di Israele e, quindi, a continuare nella strumentalizzazione della questione palestinese?
R. - Sicuramente i paesi arabi che ancora non riconoscono lo stato di Israele e che nutrono nei suoi confronti un antagonismo radicale, culturale e storico: la Siria prima di tutto, per il Golan, che, tra l'altro, ha di recente cambiato dirigenza e non sappiamo ancora bene come si comporterà; poi l'Iran e l'Iraq, e poi il Libano, dove non c'è stata contropartita al ridispiegamento israeliano della fascia di sicurezza e non è un caso che gli Hezbollah si trovino proprio in quei luoghi. Questi sono, a mio avviso, i paesi che non vogliono Israele come potenza regionale o anche transregionale, diversamente dalla Turchia, legata strategicamente all'alleanza occidentale, e in particolare agli Stati Uniti che, come contropartita, non la disturbano minimamente, sul problema dei curdi.
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